Oggi ho disfatto le valigie. Qualcosa di così semplice a me è risultato difficile. Ho tirato fuori tutti i vestiti e mi sono messa a ripensare alle occasioni in cui li avevo indossati.

Mi sono ricordata del top bianco che avevo messo una delle ultime sere in cui io e Maria siamo uscite con Marlena, studentessa berlinese di politica estera. In quell’occasione avevamo parlato dell’indipendenza della Catalogna; io trovavo che lei, pur essendo più informata di me, avesse delle idee assurde e non la appoggiavo. Avevamo pareri discordanti, ma quella sera ho imparato ad ascoltarla e ad apprezzare, forse, anche chi la pensa diversamente da me. Era stato un discorso ricco di spunti, indispensabile alla mia crescita.

Mi sono ricordata di quando al bar con Ciara e Peter, una coppia irlandese che avevo conosciuto al corso di francese, Peter mi aveva per sbaglio versato addosso un gin tonic. E poi ho preso in mano la camicia arcobaleno che mi metto quando non so cosa mettermi, e così mi sono ricordata di quel giorno in cui al corso con Ryne, statunitense di Mize, nel Mississipi, trapiantato a Bruxelles per amore, ci eravamo messi a ridere durante la lezione per una delle sue battute, come facevamo sempre, e Vincent, il nostro insegnante di francese, ci aveva detto di smettere di parlare in inglese.

E io non comprendevo come potesse pretendere che io parlassi in francese dato che avevo cominciato il corso da una settimana. Poi ho tirato fuori dalla valigia un po’ di pantaloni e maglie eleganti che usavo per uscire la sera, e mi sono ricordata il bar di Mont des Arts, gli innumerevoli barman di cui mi ero innamorata (una settimana uno diverso, c’era una grande varietà di scelta), di tutte le sere trascorse lì a guardare il tramonto che calava sulla Grand Place. Poi mi sono venute in mente tutte le risate che avevo fatto, la gioia di provare spensieratezza.

E mi sono ricordata dell’ultima sera, passata proprio lì, solamente io e Maria.

Avevamo fatto dei piani per quella sera, ma alla fine ci siamo ritrovate sempre al solito posto, che stava diventando un po’ il nostro posto, quello in cui non ti annoi mai, da cui la vista è sempre bella a qualsiasi ora, in cui ci porti solo le persone migliori. In aeroporto, durante l’interminabile attesa e aspettando il volo in ritardo, mi sono venuti in mente dei flashback. E ho pensato che forse, nel futuro, potrei rivivere gli stessi posti in cui ho vissuto tanta felicità.

La verità è, però, che mi rendo conto che le esperienze riguardano le persone, non il tempo o il luogo. E ho cominciato a vagare col pensiero e ho cominciato a pensare che è come se ci fosse un conduttore, una linea rossa che ci unisce tutti. Come se nel nostro cammino, fermandoci per allacciarci le scarpe, trovassimo una persona a cui i lacci delle scarpe si sono slacciati proprio nello stesso momento, nello stesso luogo in cui si sono slacciati a noi. E così continuiamo a camminare conoscendo questa nuova persona, questo nuovo qualcuno, dimenticandoci per poco tempo che i nostri cammini si sono incrociati casualmente in una strada sterrata di campagna, e che tra poco si divideranno. Quegli attimi erano stati qualcosa per un breve istante e sarebbero tornati ad essere nulla, come ciò che erano stati prima di diventare qualcosa.

E va bene, perché i nostri lacci si slacceranno ancora, condivideremo ancora il cammino con qualcun altro, e forse scopriremo che alcune persone semplicemente condividono la nostra stessa via per un lungo tempo. La vita è un viavai di persone, e va bene così, almeno non è mai noiosa.

Suppongo che imparare una nuova lingua sia stato utile, nonché divertente. Mi ricordo di tutte le mattine che si svolgevano nel medesimo modo: io ero incaricata di mettere la sveglia alle 8:00, alle 8:30 io e Maria scendevamo le scale per andare a fare colazione al piano terra, e alle 9 in punto partivamo per raggiungere la scuola di francese, a venti minuti da noi. Io a volte saltavo la colazione, perché la mia pigrizia prevaleva su tutto. E proprio ora mi viene in mente di tutte quelle scale che dovevamo salire per arrivare al Parc Royale che dovevamo attraversare; io dopo due rampe ero sfinita e andavo lentissima, mentre Maria, più agile, riusciva tranquillamente a farle tutte e quattro velocemente, con una naturalezza incredibile.

Poi mi sono ricordata dei tram che vedevamo passare, del tram che si è portato via Marlena l’ultimo giorno che l’abbiamo vista, era diretto a Schaerbeek. Io e Maria l’abbiamo salutata e non l’abbiamo più vista. A volte è tremendamente assurdo pensare che una persona con cui condividi tanto tempo tutti i giorni si trasformi in un vago ricordo e ti domandi se la rivedrai ancora, in quale occasione o contesto, in quale anno della tua vita.

Mi sono venute in mente tutte quelle volte che andavamo in un bar o in un ristorante, io cercavo di ordinare in francese, poi i baristi o i camerieri se ne uscivano con frasi semplicissime di cui io inizialmente non capivo nulla, ma poi, piano piano, avevo cominciato a fare l’orecchio e ad abituarmi a sentir parlare francese e capirlo.

A volte sentivo discorsi immensi di persone sedute accanto a me e non capivo niente, e pensavo a cosa stessero dicendo. Non so perché, ma mi piaceva ascoltarli comunque, mi piaceva ascoltare l’ignoto. Mi sono innamorata di ogni singolo viale, ogni singola persona, ogni singolo cartello scritto rispettivamente in francese e in olandese, di ogni singola piazza… Mi sono innamorata della sera, ancora impressa come se fosse ieri, in cui io e Maria eravamo al bar di Mont des Arts e io mi ero fissata con l’ennesimo barman, continuando a ripetere che era bellissimo (poi gliel’ho pure detto, questa storia ha avuto un lieto fine per fortuna).

E poi mi sono ricordata dei momenti in cui ho realizzato che l’esperienza stava per finire, di quella volta che ho detto a Maria “tra dieci giorni torniamo a casa e non voglio, sto bene qua” e lei che continuava a ripetermi “ma dieci giorni sono tantissimi, potrai dire questa cosa solo il giorno prima della partenza. Goditi gli attimi, vivi il presente”.

Ed è proprio questo che mi riesce male. Una volta eravamo andate al pub irlandese vicino al Parlamento europeo per uscire con Ryne che abitava lì vicino. Ci eravamo fatte quaranta minuti di camminata, ma alla fine avevamo subito dimenticato la fatica visto il volto del nostro amico. E quella sera penso di aver imparato una delle lezioni più importanti della mia vita perché io, sempre con addosso quest’angoscia del futuro insita in me, avevo detto a Ryne che mi sarebbero mancati quei momenti. Ridere insieme, raccontarci di quanto gli Stati Uniti, suo Paese natio, fossero uno stato tutt’altro che funzionale, parlare di quanto fosse buono il cibo italiano e di quanto mi mancasse, lamentarci dell’ignoranza delle persone… Lui con gioia mi aveva risposto che nella vita le cose, per quanto fugaci siano, cambiano. E aveva proprio sottolineato che la vita è bella perché cambia. La vedi mai la vita noiosa delle persone che svolgono un lavoro monotono circondate da gente monotona per tanto tempo? Ryne mi aveva detto di non pensare alla fine, di pensare a un nuovo dolce inizio della mia vita quando sarei tornata in Italia.

Mi aveva detto che ogni bus, treno, aereo che prendo mi porta ad una destinazione in cui posso essere una nuova persona rispetto a quella che ero prima di partire. E poi si era messo a parlare della sua vita. Aveva fatto viaggi lunghissimi, aveva lasciato persone amate, aveva visitato luoghi lontani senza più vederli una seconda volta, aveva amato tante persone, dato vita a numerose risate, salpato mari, aveva vissuto un anno a Strasburgo, tre a Parigi, sua città preferita nel mondo, ripeteva sempre che Bruxelles era relativamente piccola e io gli contestavo dicendo che per me era grande il giusto e soprattutto bellissima.

Ryne quella sera aveva concluso il suo discorso in mezzo a tante risate, rassicurandomi, dicendomi “Yesterday is history, tomorrow is a mystery, but today is a gift; that’s why we call it present.” (Ieri è storia, domani è mistero, ma oggi è un regalo, per questo lo chiamiamo presente). E io solo in quel momento ho compreso l’importanza di cogliere l’attimo. Cogliere le parole, gli sguardi, le risate, la gente.

Suppongo che sia per questo che mi sento invincibile; so vivere il presente, così come sono in grado di affrontare i cambiamenti della vita, il viavai di persone che mi viene offerto, e soprattutto sono pienamente consapevole, dopo questa esperienza, di essere capace di fare tutto ciò che voglio fare, capace di essere tutto ciò che voglio essere.

Ci sono tante persone che devo ringraziare, e un libro non basterebbe per descriverle tutte. Vorrei però ringraziare principalmente B, statunitense giramondo, cui vero nome è Bernardette (il suo nome non le piaceva e di conseguenza si faceva chiamare solo B). B era una persona raggiante, sempre col sorriso. E suppongo mi abbia donato una ventata di felicità conoscerla, una leggera brezza di spensieratezza che tutti nella vita necessitano. B è la dimostrazione che nella vita gli ostacoli possono essere superati in maniera grandiosa, la dimostrazione che nella vita tutto si può. Tra poco B verrà a Venezia per trovare me e Maria e spero di godermi il momento al massimo, di imparare ancora tanto da lei e di rivederla ancora in futuro.

Grazie anche a Jani e Barbara (le nostre coinquiline, le prime di una lunga serie), Ciara e Peter, Marlena, Sven e Olga, Matteo ed Arthur, Amelia, Roderic, Cillian, Camila, Daira, Johann, Federica e Giulia.

Nicole Colombara